New York, città operaia e socialdemocratica
Sembra paradossale affermarlo oggi, di fronte al flusso frenetico e incessante di colletti bianchi della finanza, dell’immobiliare e dell’industria culturale che la attraversano.
Ma l’elezione a sindaco di Zohran Mamdani, con la sua agenda antiplutocratica, riporta alla luce un capitolo affascinante della storia recente: quello della New York operaia e social-democratica della prima metà del Novecento.
Allora – come documenta il libro Working-class New York : life and labor since World War II DI J. Freeman ( the New Press, 2000) – circa la metà dei lavoratori newyorkesi erano colletti blu. La manifattura in senso stretto impiegava quasi un terzo dei lavoratori totali.
Una città industriale sui generis: orgogliosamente antifordista, in pieno boom del fordismo. Senza grandi impianti verticalmente integrati come a Detroit o Pittsburgh, ma con una costellazione di piccoli e medi laboratori specializzati in produzioni di nicchia, sartoriali, destinate perlopiù al mercato interno locale.
Manhattan ospitava il distretto di abbigliamento (garment) e della moda più grande degli USA. Numerose tipografie per la stampa di giornali e annunci pubblicitari. L’industria della carne, concentrata nel Meatpacking District, sulla riva occidentale del fiume Hudson. Il porto con il suo indotto.
La working class era formata da immigrati e abitava nel Lower East Side: italiani, ebrei scappati dai pogrom zaristi, polacchi, tedeschi, irlandesi, cinesi, portoricani. E afroamericani, in fuga dalle leggi Jim Crow del Sud segregazionista. Le condizioni di lavoro in fabbrica erano durissime, gli incidenti piuttosto frequenti; come l’incendio della Triangle Shirtwaist Factory del marzo 1911, in cui persero la vita 146 persone (perlupiù donne, italiane ed ebree).
Nel tempo, i sindacati riuscirono a organizzare questa manodopera così eterogenea a darle potere contrattuale (e coscienza di classe), strappando salari crescenti e riduzione degli orari di lavoro.
Sciopero dopo sciopero, lotta dopo lotta, la working class riuscì a costruire un welfare urbano senza eguali negli USA.
Zero tasse di iscrizione all’università pubblica (CUNY). Blocco degli affitti. Costruzione di edilizia sociale e cooperativa. Trasporto pubblico (public transit) capillare ed economico (una corsa costava meno di 1 dollaro di oggi). Rete di ospedali pubblici e centri di cura pediatrici gratuiti. Biblioteche comunali diffuse e all’avanguardia. Parchi pubblici. Musei e spettacoli teatrali a buon mercato.
Parallelamente, la città godette di un fermento culturale e politico straordinario: l’Harlem Renaissance, i poeti beat e i cantanti folk del Greenwich Village, la lotta per i diritti civili dei neri, il femminismo (con il diritto di voto per le newyorkesi ottenuto nel 1917, tre anni prima del XIX emendamento), l’attivismo LGBT culminato nei fatti di Stonewall del 1969.
Il cambiamento iniziò negli anni ’60, quando la classe media bianca – grazie ai mutui a basso costo messi a disposizione dalle agenzie federali, alla costruzione delle autostrade e alla diffusione della motorizzazione privata – lasciò la city multietnica e caotica, per inseguire l’utopia suburbana della villetta a schiera con giardino privato e barbecue, in quartieri rigorosamente monoetnici.
Le fabbriche migrarono nel Sud degli Usa, a caccia di minori oneri fiscali e salariali.
La città entrò in una crisi fiscale pesantissima, che affrontò prima con l’indebitamento, poi con le politiche di austerità: licenziamenti di dipendenti pubblici (specie forze dell’ordine e pompieri), taglio della spesa sociale (case popolari, ospedali, scuole), aumento delle rette universitarie e degli affitti. Interi quartieri furono abbandonati al degrado e alla criminalità (il South Bronx su tutti).
La città fu ribattezzata “Fear City” nei volantini dell’epoca (cfr. K. P. Fein, Fear City: New York’s Fiscal Crisis and the Rise of Austerity Politics, Picador, 2017).
New York cambiò definitivamente pelle negli anni ’80 e ’90. Nuovi slogan – in linea con la nouvelle vague neoliberale – si imposero: il “Greed is Good” di Gordon Gekko divenne il vangelo di Wall Street; il brand “I love NY” sancì la trasformazione della City in parco giochi per turisti famelici di selfie; la “tolleranza zero” del sindaco sceriffo Rudolph Giuliani riportò ordine e sicurezza, accanendosi in particolare contro le minoranze etniche (latinos e blacks sono il 50% della popolazione totale, ma formano l’89% della popolazione carceraria).
Le risorse pubbliche, sottratte al Welfare, furono dirottate nelle tasche degli sviluppatori/speculatori immobiliari à la Trump per stravolgere lo skyline della città (vedi il recente film di Ali Abbasi The Apprentice). Orde di yuppies, hipsters, professionisti benestanti si insediarono nei vecchi quartieri popolari, facendo schizzare alle stelle i prezzi degli immobili e il costo della vita, relegando ai margini i più poveri. Boutique e catene di marche alla moda sostituirono le botteghe a conduzione familiare.
Oggi, al termine del ciclo neoliberale, il newyorkese medio guadagna 40.000 dollari l’anno e paga un affitto di 3.000 dollari al mese. L’1% della popolazione guadagna in media oltre 3,5 milioni di dollari. Le disuguaglianze esplodono e la “linea del colore” resta la principale faglia sociale (cfr. J. Moss, Vanishing New York: How a Great City Lost Its Soul, Dey Street Books, 2017).
Con l’elezione di Mamdani, la New York operaia e social-democratica torna in gioco.
La partita, che sembrava chiusa, si è improvvisamente riaperta. Nella Grande Mela e, auspicabilmente, nel resto dell’America.