Catania-Palermo in treno. Il viaggio della speranza.
Parto da Catania una mattina qualunque, con un biglietto e una speranza tiepida: arrivare a Palermo prima del tramonto. Trenitalia dice quattro ore, ma in Sicilia il tempo ha le sue regole: non lo misuri, lo subisci.
Il treno parte lento, rassegnato come un vecchio mulo. Attraversa limoneti, campi bruciati, cantieri che sembrano scavi archeologici. Dopo un’ora si ferma. “Guasto tecnico.” La voce del capotreno è la stessa di chi comunica un lutto. Dentro nessuno protesta. Una signora apre il panino, un vecchio racconta che “con la littorina ci mettevi meno”, e un ragazzo commenta: “Alta velocità? Qui siamo alla velocità dell’anima.”
Ripartiamo, a singhiozzo, finché a metà strada — dalle parti di Enna — il treno si ferma per davvero. Fine corsa. “Problemi alla linea. Ci sarà un autobus sostitutivo.”
E lì comincia il secondo tempo del calvario. Scendiamo nel nulla, una stazioncina sbriciolata tra i monti. Ci fanno salire su un pullman che pare uscito da un film degli anni ’80. L’autista, santo o condannato, imbocca strade che non conosce nemmeno Google Maps.
Facciamo il giro di ogni paese possibile tra Enna e Palermo: Villarosa, Valguarnera, Caltavuturo, Sclafani Bagni… un pellegrinaggio tra curve e crateri. Il bus si arrampica, frena, suda. I passeggeri pure. Qualcuno recita, qualcuno ride, qualcuno maledice. È un’odissea dentro l’odissea.
Un’anziana dice: “Forse arriviamo domani, ma almeno arriviamo vivi.” Io guardo fuori e penso che questo non è un viaggio — è un documentario sull’abbandono. Dopo ore di tornanti e silenzi, finalmente Palermo. Sei ore e mezza per duecento chilometri. Qualcuno applaude, altri si spengono in un sospiro.
Io scendo e mi sento parte di un esperimento sociale: quanto può resistere un cittadino prima di perdere la fiducia nello Stato?
Mi allontano dalla stazione di Palermo. Penso che Cristo si è fermato a Eboli, è vero. Ma da Messina in giù deve aver lasciato pure la speranza, caricata su un treno che da allora non è più ripartito.