La pornografia della violenza

“A che serve schierarsi, quando il dissenso pubblico non ha alcun potere?”Questa domanda, tanto bruciante quanto attuale, accompagna l’osservazione di una sproporzione sempre più evidente: da una parte, la violenza sistematica e documentata nei confronti della popolazione palestinese; dall’altra, l’apparente impotenza del dissenso culturale, artistico, pubblico.

Nonostante la diffusione capillare di informazioni, il dissenso oggi sembra non sortire effetti concreti. Le manifestazioni si moltiplicano, ma restano sterili. Le voci critiche vengono isolate, delegittimate. Le immagini dei bambini palestinesi feriti scorrono sugli schermi degli smartphone come contenuti inerti in un flusso infinito.

Se negli anni della guerra del Vietnam le immagini dei massacri, le proteste universitarie e le voci degli artisti contribuirono a una crisi di legittimità per il governo americano, oggi, mentre Gaza è bombardata sotto gli occhi del mondo, l’indignazione non riesce più a tradursi in pressione politica.

Persino l’università, luogo per eccellenza dello scambio e della libertà di pensiero, sembra cedere all’intolleranza: in alcune sedi statunitensi si accettano restrizioni alla libertà di parola, si emarginano studenti stranieri, si tollera l’espulsione del dissenso. Tutto questo avviene nel silenzio generale, sotto una coltre di normalizzazione e paura.

Altro non è che l’effetto della censura e della repressione del dissenso.

Il cortocircuito dell’empatia

Una delle cause più profonde di questa mutazione è tuttavia anche la crisi dell’empatia: la nostra capacità di sentire l’altro come prossimo, vulnerabile, reale.

Mai come oggi siamo esposti all’immagine documentaria. Instagram, TikTok, X (ex Twitter) hanno trasformato i social media in veri e propri media, capaci di veicolare in tempo reale scene di devastazione, testimonianze dirette, corpi dilaniati: eyeonpalestine in primis.

Ma questa esposizione non sembra generare maggiore consapevolezza. Al contrario: la saturazione dell’immaginario produce desensibilizzazione. È il meccanismo della pornografia del dolore: una ripetizione ossessiva di immagini estreme che finisce per banalizzarle. Lo scroll continuo diventa il gesto quotidiano dell’indifferenza.

Il nostro sguardo è colmo di immagini ma vuoto di rivelazioni. E senza rivelazione, l’empatia non attecchisce.La mancanza di impatto politico mina alla base la credibilità della protesta. Alimenta un senso di impotenza che ci spinge, inconsapevolmente, a voltare lo sguardo.

La conoscenza non basta più

La mia generazione è cresciuta con l’idea che conoscere fosse l’antidoto al male. Abbiamo creduto che il genocidio nazista fosse stato possibile perché nascosto. E che mostrare, informare, denunciare sarebbe bastato per fermare l’orrore.

Hannah Arendt ci aveva avvertiti: il male non si manifesta solo nella ferocia, ma nella banalità dell’obbedienza burocratica. Oggi Gaza è sotto gli occhi del mondo. Tutto è visibile. Eppure, nulla cambia.

Dopo l’11 settembre, i sogni di un altro mondo possibile si sono sgretolati sotto la retorica dell’autodifesa. Ma autodifesa da chi, se non da noi stessi? Da un modello tossico di sviluppo garantito solo dalla disparità?

L’Occidente ha accelerato verso sorveglianza, dominio, reazione militare. Il legame tra coscienza e azione si è spezzato.

Un vuoto da colmare

Per invertire questa tendenza servono almeno tre condizioni:

  1. Ricostruire responsabilità collettive. L’empatia senza azione si spegne. Servono reti, associazioni, luoghi di confronto reale. L’indignazione va trasformata in impegno.
  2. Fare dell’arte un atto politico. Non serve lo slogan, ma nemmeno la neutralità. L’arte può ancora raccontare ciò che la cronaca disintegra, rimarginare le ferite dell’empatia collettiva. Far si che gli artisti in generale (gli stessi influencer!) si riapproprino del loro ruolo civile.
  3. Restituire profondità alle immagini. Contestualizzare, raccontare, incarnare. Educare a distinguere tra rappresentazione e realtà. Educazione audiovisiva. Educare all’inferenza.

Tre derive pericolose

Di fronte alla tragedia palestinese, oggi emergono tre reazioni egualmente pericolose:

  1. L’accusa automatica di antisemitismo verso chi difende i palestinesi, come se criticare uno Stato significasse negare la storia di un popolo.
  2. La normalizzazione silenziosa, che svuota di senso ogni appello alla soluzione dei “due popoli, due Stati”.
  3. L’indignazione assoluta, che sfocia in tribunali simbolici, in un desiderio di giustizia che si trasforma in vendetta.

Abbiamo dimenticato la quarta via: negoziare, accettare il conflitto come atto creativo, non come sentenza definitiva.

È urgente depotenziare la violenza e riscoprire la dignità di scelte opposte: inclusive, mediatrici, evolute.

In questa fase planetaria, l’unica ricchezza possibile è quella collettiva.

Schierarsi per continuare a sentire

Al Festival di Cannes nel maggio 2025, Julian Assange ha indossato una maglietta con i nomi di 4.986 bambini palestinesi sotto i 5 anni uccisi a Gaza (nel frattempo, molti altri sono morti).Un gesto silenzioso e simbolico, compiuto all’indomani di un patteggiamento che lo ha liberato dopo anni di reclusione.

Nel frattempo, in diverse città europee, semplici cittadini vengono identificati e convocati dalle forze dell’ordine per aver mostrato cartelli con scritto “Stop al genocidio”.

Uno spettro sinistro si aggira tra noi.

Ci chiediamo allora se serva ancora schierarsi, avere una posizione divergente, se la democrazia esista davvero, o ne sia rimasto solo il simulacro.

Sì, serve.

Serve per non smettere di sentire.

Per non accettare che la guerra sia l’unica via.

Per non cedere allo sguardo inespressivo del drone.

Per proteggere l’empatia.

Per continuare a vedere.

Per restare umani.