Patriarcato, una questione di linguaggio condiviso
Si può definire la nostra una società patriarcale? Non ne sono così sicura.
Detto di sistema familiare o sociale che faccia capo al padre di famiglia, secondo le antiche usanze. Esteso, che si fonda sul patriarcato alias organizzazione della famiglia basata sull’autorità paterna e sulla trasmissione dei diritti ai membri maschili. Da patriarca: lemma di prima del 1292, capo di una grande famiglia, dotato di poteri assoluti sui propri discendenti, presso antiche popolazioni o tribù primitive.
Si può quindi definire la nostra una società patriarcale? Prima potremmo forse dire e che ne è la conseguenza, un risultato o un’evoluzione.
Non la possiamo definire tale in senso stretto perché il fenomeno sociologico del patriarcato è finito. Da anni il ruolo del capofamiglia nella società occidentale non esiste più. Esiste ancora, per ipotesi, in alcuni paesi a maggioranza musulmana o nelle società tribali divise secondo delle regole gerarchiche molto precise.
Ammettendo quindi che il patriarcato sia terminato, la sua evoluzione ha mantenuto nella nostra società occidentale un certo dispotismo maschile? Nel suo significato figurato di “modo di comportarsi autoritario” cioè “che fa valere la propria autorità con fermezza intransigente e talvolta eccessiva, limitando o negando il ruolo dell’altro (alias della donna) e le sue libertà individuali” pare evidente nei casi più eclatanti.
Vedo più diffuse le sue vestigia nella struttura della società, come ad esempio nella scarsa presenza femminile nei luoghi di potere, nella differenza a ribasso tra gli stipendi, nella difficoltà a favorire la conciliazione tra famiglia e carriera, nel senso di possesso del corpo femminile da parte dell’uomo. Alcuni luoghi occidentali legiferano ancora sul corpo delle donne, per poterlo determinare, come nel caso dell’aborto, dove le donne vengono “private” del proprio corpo. Nessuno dice a un uomo cosa deve fare del proprio corpo.
Poiché, nel dibattito pubblico, alle istanze femministe spesso è contrapposta questa negazione del patriarcato senza riuscire a entrare nel merito delle questioni, è necessario quindi mettersi d’accordo sul linguaggio. Il linguaggio è importante perché dà una forma al nostro pensiero. Senza, è difficile aver chiare le situazioni.
Se è necessario creare un dibattito critico su questo tema tra pareri discordanti, il primo sforzo da fare è accordarsi sui termini da usare, trovare un linguaggio in comune (ancora troppo difficile in alcuni casi) o per lo meno stabilire dei parametri nei quali sia possibile confrontarsi. Un “apriti sesamo” che permetta al ragionamento di superare l’ostacolo e andare avanti nella ricerca delle soluzioni.
Delle parole mattone quindi, ma come si fa a trovarle? Dovremmo prima riuscire a identificare quelle più divisive, dove si crea la frattura linguistica. “Patriarcato” è sicuramente una di queste e per superarla è necessario forse usarne più di una. “Autoritarismo maschile” per esempio.
Ma non è nemmeno necessario che ci sia qualcosa di dispotico e violento dove è evidente da subito un ruolo di potere che ne prevarica uno più debole. A volte questa forza viene esercitata in maniera più subdola. Attraverso l’allusione che alcune cose non possano essere fatte da una donna, che non le competono.
Maschilismo.
Di prima del 1937, “concezione e comportamento secondo cui all’uomo viene riconosciuta una posizione di superiorità, e quindi di privilegio, nei confronti della donna“.
Ereditiamo oggi una società maschilista come trasformazione del patriarcato e che a differenza di esso non si è ancora dissolta.