Turetta ce l’ha piccolo (e non è l’unico)!
“No, non è una questione di centimetri, ma di quanto piccolo ti senti quando perdi il controllo.”
Nel nostro mondo patriarcale c’è un concetto non scritto che regola il comportamento maschile: valgo quanto mi sento potente. E il potere, per molti uomini, si misura con muscoli, prestazione, soldi… e sì: anche con il pene. O meglio, con la percezione del proprio pene rispetto a quello degli altri. Più piccolo ti senti, più sei debole. Più sei debole, più hai bisogno di dimostrare di essere forte. Ed è proprio lì, in quello scarto tra l’immagine che gli altri vedono e il vuoto che senti dentro, che si costruisce la trappola.
Curiosamente, anche se fallire e fallo non condividono la stessa origine etimologica, la loro vicinanza sonora crea un cortocircuito potente. “Fallire” deriva dal latino fallĕre, che significa ingannare, mancare, deludere. “Fallo”, invece, deriva dal greco phallos, passato poi al latino phallus, e indicava l’organo sessuale maschile, spesso in contesti rituali di fertilità. Non c’è dunque una connessione linguistica diretta, ma simbolicamente le due parole finiscono per sfiorarsi. Uno evoca il vuoto, l’altro la potenza. Ma quando il secondo viene percepito come “non abbastanza”, l’uomo teme il primo. E così, nella mente maschile, non essere virile può diventare sinonimo di essere un fallimento.
Quando esplodono casi come quello di Giulia Cecchettin, vittima dell’ennesimo femminicidio per mano dell’ex, o di Sara Campanella, 22 anni, studentessa universitaria a Messina, accoltellata a morte da un collega che la perseguitava da due anni, o ancora il caso di Ilaria Sula, anche lei ventiduenne, trovata senza vita in una valigia vicino Roma, ci chiediamo: perché un ragazzo apparentemente tranquillo, magari sportivo, educato, arriva ad ammazzare la donna che diceva di amare?
E se la risposta fosse: perché si sentiva piccolo? Nel corpo, nella virilità, nella psiche. Piccolo come uomo. Piccolo come amante. Piccolo come persona. E non sapeva dove mettersi, se non sopra di lei.
La psicologia del fallito (con o senza centimetri)
Molti uomini crescono senza alcun vero strumento per gestire la frustrazione, il rifiuto, l’insicurezza sessuale, l’ansia da confronto. Fin da piccoli interiorizzano un modello di mascolinità che non lascia spazio alla vulnerabilità, alla fragilità, alla confusione. E allora nasce quella che potremmo chiamare psicologia del fallito:
- Sono stato lasciato → non valgo.
- Lei ne sceglierà un altro → sarà più dotato, più uomo.
- Non ho il controllo → sto scomparendo.
- E se sto scomparendo → devo fare qualcosa per tornare a esistere.
Questa spirale psicologica non è fatta di parole, ma di sensazioni viscerali. Di notti insonni, pensieri ossessivi, confronti immaginari. E quando non hai parole per dire tutto questo, lo dici con un coltello.
Non è una questione di impulsività. È una costruzione lenta, silenziosa, a volte invisibile. È lì che l’insicurezza maschile, se lasciata marcire, diventa violenza.
E non serve una storia tragica alle spalle: basta un’educazione che non ha mai nominato la fragilità. Un’idea di uomo tutta fatta di silenzi, muscoli e controllo. Nessun ragazzo nasce carnefice. Ma se lo lasciamo solo con la sua vergogna, lo diventerà.
Uno studio recente condotto da Dennis E. Reidy, Danielle S. Berke, Brittany Gentile e Amos Zeichner dal titolo e pubblicato su Psychology of Men & Masculinities con il titolo “Abbastanza uomo? Lo stress da discrepanza maschile e la violenza nelle relazioni intime” ha dimostrato che l’adesione a norme maschili tradizionali, come l’aggressività, il dominio e la repressione emotiva, è correlata a un maggiore rischio di violenza domestica e intima.
Spogliatoi, porno, silenzi: le palestre della vergogna
Cosa succede a un adolescente che si confronta nudo con gli altri maschi, negli spogliatoi? Che guarda porno iper-performativi? Che sente solo battute su “chi ce l’ha più lungo”? Che non ha mai un adulto che gli dice: va bene anche se ti senti fragile?
Succede che cresce sentendosi sbagliato, anche se non lo direbbe mai. Succede che ogni confronto diventa angoscia. Che il sesso diventa minaccia. Che l’amore diventa un campo di battaglia. E se poi la sua ragazza lo lascia, non perde solo una relazione: perde l’ultima prova del suo valore.
La pornografia, i social, i gruppi maschili non filtrati da un pensiero critico diventano palestra di fallimento. Ogni video è una prova di ciò che non sei. Ogni ragazza che guarda altrove è una minaccia. E in quel momento, la vergogna si trasforma in rabbia. E la rabbia in ossessione. E l’ossessione in omicidio. Non perché sia cattivo, ma perché non ha mai imparato a sentirsi uomo senza vincere.
Anche il report di Carly Snyder, medico specializzato in psichiatria riproduttiva, pubblicato su Verywell Mind nel 2022, evidenzia che la “mascolinità tossica” porta con sé danni gravi: tra questi, l’alienazione emotiva, la dipendenza dal controllo e la violenza interpersonale.
Educazione sessuale ≠ educazione fallica
In Italia si parla ancora troppo poco di educazione affettiva e sessuale maschile. Quella vera. Quella che non si limita a spiegare come mettere un preservativo, ma che entra nei nodi profondi dell’identità.
Bisogna dire ai ragazzi, chiaramente: “Non sei il tuo pene.” “Non devi conquistare nessuna.” “Non sei meno uomo se piangi, se perdi, se vieni rifiutato.” “Essere uomo non è vincere: è sapere chi sei anche quando non vinci.”
Servono adulti capaci di guidare, non solo allenare. Di ascoltare, non solo correggere. Di accogliere la vergogna maschile senza ridicolizzarla. Solo così i ragazzi possono imparare a diventare uomini, davvero. Abbiamo bisogno di spazi di parola per i ragazzi. Di incontri dove possano parlare della loro ansia, dei loro corpi, delle loro emozioni. Dove un fallimento non significhi fine del valore, ma passaggio necessario per capire chi sei.
Gli uomini che uccidono ce l’hanno piccolo
Sì, lo diciamo così, dritto: Gli uomini che uccidono le donne ce l’hanno piccolo. Non perché abbiano davvero pochi centimetri — chi se ne frega — ma perché vivono ogni rifiuto, ogni perdita, ogni NO, come un’umiliazione fallica. Come se il mondo intero stesse guardando giù, e ridendo.
E la vergogna è intollerabile. L’unico modo per annientarla, per alcuni, è annientare l’altro. Uccidere ciò che li fa sentire piccoli.
Questa non è biologia. È educazione emotiva mancata. È mascolinità tossica interiorizzata. È paura di non essere abbastanza, mai. E finché non insegneremo ai ragazzi a sentirsi uomini anche senza essere dominanti, prestanti, invincibili… continueremo a contare donne morte. E a dire che “sembrava un bravo ragazzo”.
Il vero uomo non uccide.
Il vero uomo non si misura.
Il vero uomo sa di valere anche quando si sente piccolo.