Carlo Giuliani e l’orrore di Genova
Filmati ed immagini del G8 di Genova di venti anni fa ce ne sono e ce ne furono a disposizione da subito tantissimi. Ritraevano disordini, auto bruciate, scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, giovani sanguinanti per le percosse e poi quelle tragiche del corpo senza vita di Carlo Giuliani sull’asfalto, la parola definitiva e ferma che chiudeva l’irrefrenabile e disordinato (in apparenza) dinamismo di quei giorni.
Io non ero tra i partecipanti alla manifestazione. Tutto ciò che feci fu cercare di capire cosa stesse accadendo man mano che i telegiornali ne davano notizia e nonostante la gran mole di immagini feci fatica a comprendere la dinamica di quegli accadimenti, così importanti per interpretare un pezzo della storia del nostro paese. Ciò che meno era comprensibile era infatti la ratio delle cose: tutto appariva slegato e privo di senso a parte quello del caos e della distruzione operata dai manifestanti sulla città, all’interno dei quali vanno inserite le immagini anonime del corpo senza vita di Giuliani come loro diretta conseguenza.
Il mio atteggiamento nei confronti di questo tipo di manifestazione, che consideravo inautentico e non paragonabile a quello del movimento operaio e studentesco degli anni settanta, era di diffidenza. Sapevo bene che, come era stato già per la mia generazione, scendere in piazza il più delle volte significava recitare un copione funzionale al massimo a favorire la socializzazione ed il divertimento di quanti vi partecipavano e sapevo che anche per le manifestazioni del G8 questa era una componente. Ciò che non immaginavo era tutto il resto, che non era poco.
Forse a torto ritenevo che nonostante una cultura senz’altro superiore, quei giovani fossero meno preparati alla vita, più sguarniti dei loro genitori. Pensavo che la maggior parte di loro facesse anche le cose che implicavano scelte di natura politica, aderire ad un corteo di protesta ad esempio, come se si trattasse di un gioco. Era in sostanza questo ciò che rimproveravo a quanti della mia generazione e di quella di poco successiva erano soliti scendere in piazza ed era sempre questa la ragione per la quale ero convinta del fatto che non potessero rappresentare un pericolo per il potere costituito. Mi meravigliai dunque molto quando vidi trasformarsi una manifestazione come quella di Genova, a cui partecipavano per lo più gruppi pacifisti, in qualcosa a cui a far da padrona esclusiva fosse la violenza.
Il racconto dei media era che ciò era causato dalle azioni provocatorie, con intenti deliberatamente distruttivi dei black bloc, frange di estremisti no global che in quegli anni presenziavano a qualunque incontro di un certo peso politico nel mondo occidentale, per esprimere il proprio dissenso nei confronti tanto del capitalismo, quanto della globalizzazione. Come sopra scritto farsi un’idea più precisa delle responsabilità non era cosa semplice, per la ragione banale che non si comprendeva come quella violenza avesse avuto inizio, ma anche per il fatto che una città come Genova sembrava travolta in molti dei suoi distretti ed era intuibile che gli scontri fossero diversi ed ognuno avesse modalità e sviluppi propri che i filmati visionabili in TV non consentivano di cogliere.
Non diedi comunque grosso peso a ciò che vedevo. Incominciai ad interessarmene solo quando per la prima volta furono mandate in onda le immagini di Carlo Giuliani steso a terra in una pozza di sangue. Non era solo il fatto che la gravità degli scontri avesse portato le forze dell’ordine ad ammazzare un giovane di ventitré anni, quanto la stranezza della rappresentazione di quella morte: il corpo di Giuliani era infatti esile e minuto e vederlo esanime nella sua canottiera bianca lo faceva apparire più giovane di una decina d’anni. Negli scatti inoltre, intorno a lui regnava la solitudine ed uno strano vuoto: a prevalere era infatti l’assenza e non solo della vita appena persa dal ragazzo. Ad interrompere questo vuoto giunsero presto le immagini di Giuliani che brandiva un estintore nell’atto di lanciarlo contro i carabinieri che si trovavano all’interno di un defender, mentre dall’abitacolo una mano impugnava una pistola in direzione di Giuliani, la stessa che un attimo dopo gli avrebbe sparato in pieno volto procurandone la morte.
A questo punto era possibile incominciare a farsi un’idea di come fossero andati i fatti: un carabiniere si era difeso dall’attacco di un pericoloso manifestante, freddandolo con la pistola d’ordinanza. Il giovane delinquente, un black bloc evidentemente, se l’era cercata. Queste immagini avevano però anch’esse qualcosa che catturava ancora la mia attenzione. Stavolta era l’assenza di identità del giovane con l’estintore. Era come se la storia di quel ragazzo non potesse né dovesse entrare e poi uscire da quegli scatti.
Sul G8 di Genova e sui suoi tragici sviluppi, di cui la morte di un ragazzo di ventitré anni fu solo una delle ferite inferte scientemente a quanti avevano deciso di partecipare alla manifestazione, molto si è detto e scritto e molto ancora si dirà e si scriverà, segno che esiste una necessità autentica nel paese affinché ciò avvenga. I fatti della Diaz e di Bolzaneto, con le loro insensate violenze ed i depistaggi, oggetto poi di numerosi processi che talvolta sono parsi fare luce, altre volte meno, furono a loro volta episodi vergognosi sull’urgenza dei quali ancora ci si interroga. Tuttavia se dovessi pensare a ciò che oggi più di allora mi ferisce, non posso non ricordare la morte lanciata come un mantello per sempre su Carlo, a tutte le parole che avrebbe voluto dire, all’amore che avrebbe ricevuto e dato, ma anche al fatto che nessuno in tutti questi anni, ad eccezione di artisti come Guccini, durante una delle decine di trasmissioni televisive e non dedicate al G8 di Genova, abbia manifestato interesse per chi fosse davvero Carlo Giuliani, che non era un black bloc, che quel giorno aveva deciso di andare al mare e che si trovava lì per caso.
Che pensieri aveva Carlo? La regista Francesca Comencini cercò di raccontarlo nel documentario del 2002 “Carlo Giuliani, ragazzo” che, attraverso le parole della madre ed immagini inedite, illuminò molto di quanto era parso oscuro e volutamente incomprensibile. La verità è infatti sempre semplice.
I manifestanti del G8 erano in gran parte pacifisti.
Su di essi le forze dell’ordine esercitarono una violenza premeditata e voluta dai loro stessi vertici per fini politici.
Carlo Giuliani era troppo lontano dal Defender (camionetta ndr) dei carabinieri per riuscire a procurare col lancio dell’estintore un reale nocumento a cose o persone. Non è ancora certo se a sparare sia stato il carabiniere Placanica, (i proiettili che hanno ucciso Carlo non erano infatti quelli in dotazione ai carabinieri) il solo che seppur scagionato nei diversi gradi di giudizio per aver agito per legittima difesa è stato di fatto allontanato dall’Arma1. Sul corpo di Carlo è passato per ben due volte il Defender nel tentativo infine riuscito di allontanarsi dal luogo in cui un giovane era stato ucciso. È questa la ragione per la quale quel corpo senza vita sembra più simile ad un bambola rotta lasciata cadere a terra che il giovane corpo di un uomo.
Sulla fronte del ragazzo vi è una ferita, procurata da un rappresentante delle forze dell’ordine per attribuire la responsabilità dell’omicidio agli stessi manifestanti.
Le forze dell’ordine avevano già sparato ed a più riprese, come testimoniano i filmati; vi era dunque la precisa intenzione che i fatti drammatici che ho in parte elencato si verificassero.
Carlo scriveva splendide poesie. Era un volontario dell’Associazione Nazionale per la lotta contro l’AIDS.
Aveva svolto il servizio civile presso Amnesty International a Genova e tramite la Comunità di Sant’Egidio aveva adottato un bambino a distanza.
Carlo aveva avuto problemi con la droga, come tanti, troppi ragazzi in quegli anni.
Carlo aveva ed ha ancora troppe cose da dire, dobbiamo lasciargli spazio, dobbiamo lasciargliele raccontare, perché infondo chi lo ha ammazzato lo ha voluto e dipinto muto prima ancora che morto.
Rosamaria Fumarola
P.s. Se l’ex questore di Genova Colucci è stato condannato per falsa testimonianza in favore dell’allora prefetto De Gennaro, lo stesso De Gennaro è stato invece assolto per istigazione alla falsa testimonianza nei confronti di Colucci. È evidente dunque che interessi e responsabilità di natura politica hanno avuto un loro peso nel giudizio sui fatti del 2001 a Genova.