Coronavirus: la società liquida ha paura di fermarsi

Prima era un virus cinese con un approssimativo identikit, in Italia posto a mezz’asta nella piramide delle preoccupazioni sociali; poi la parola Coronavirus è diventata virale nel dibattito pubblico, ha messo in ginocchio la popolazione, al collasso il sistema sanitario e ha ovviamente costretto a bloccare la stragrande maggioranza delle attività produttive. E dunque l’economia.

Da quando si è, con buona pace, compresa la facilità del contagio da Coronavirus, la pericolosità della situazione e i deficit del sistema sanitario (mai preso, dalla politica, troppo sul serio), a quel punto ecco l’emanazione continua e puntuale di decreti ministeriali che aggiungono restrizioni, ordinano di non uscire da casa, di non svolgere attività lavorative se non essenziali. In questa elefantiasi di atti pubblici il leitmotiv, il fil rouge, il messaggio è chiaro: bisogna fermarsi, dire stop, non uscire, non produrre. Stare a casa.

Se ci fosse stato chiesto di partire per il Vietnam, probabilmente ne avremmo risentito meno. Ebbene il risultato è che si respira ansia sociale da blocco del sistema, sui social è tutto un susseguirsi di bizantinismi su cosa avremmo potuto fare e invece non possiamo, uno striptease di insicurezze personali, paura della solitudine e difficoltà a fermarsi e approfittare del momento per (banalmente) fermarsi a pensare.

Per non parlare della tachicardia causata dal blocco dell’economia, della catastrofe immane del decremento del Dio Capitale, da togliere il fiato! Potrebbe sembrare demodé trascorrere del tempo con sé stessi lontani dal frastuono sociale e in realtà lo è. Potrebbe sembrare che più che esseri pensanti siamo macchine che producono per accumulare Capitale, in realtà lo è. Potrebbe sembrare che nell’attuale società, più che il Sole, è l’economia che ruota intorno alla Terra, in realtà lo è.

Lo è a partire dalla Rivoluzione Francese (sotto l’aspetto politico-sociale), dalla Rivoluzione Industriale (sotto l’aspetto economico-industriale). Lo è da quando si è andata formando la cosiddetta modernità liquida, da quando abbiamo smesso di considerare il passato e il presente, focalizzandoci solo sul futuro; nutrendoci inconsciamente fino al midollo di una prospettiva teleologica che ha condizionato le vite di ciascuno. O meglio, una mentalità che si è contratta nel processo collettivo e di riflesso è stata assimilata nella vita personale di ciascuno.

Con un presente che si trasforma continuamente in passato, con un obiettivo da raggiungere che può essere contenuto necessariamente solo nel futuro, ecco che la fretta di correre verso un obiettivo attanaglia le nostre vite per cui il tempo non è mai sufficiente, c’è il continuo maledetto bisogno impellente di produrre, di consumare, di andare oltre, di fare qualcosa. Una psicosi collettiva della fretta, della corsa, trascurando la coltivazione del presente che nel frattempo diventa arido come il deserto del Negev.

E in questa fretta di correre verso un fine, si inserisce la crisi dell’uomo contemporaneo: privo di ideali, privo di punti di riferimento, privo di valori. In verità l’attuale crisi dei valori (che comodamente si affida al caso) ne è una logica conseguenza: se nella società liquida il presente e il passato perdono il loro valore, parallelamente si svuota di significato anche la tradizione che per antonomasia appartiene al passato. Se culturalmente non si edifica nel presente e non si tiene conto del passato, il futuro sarà ovviamente vuoto di punti di riferimento, di strutture culturali a cui guardare. E farà paura.

Nel 1300, quando la peste nera imperversava in ogni angolo del mondo, non c’erano di certo le strutture sanitarie moderne, né le moderne conoscenze, tantomeno la tecnologia. Tuttavia la popolazione la affrontò trovando conforto (in modo palesemente erroneo, ma contestualizziamo) nella religione: i musulmani accettarono la malattia come volere di Allah per entrare nel Janna, i cristiani come un modo di espiare i propri peccati. Con tutti i suoi difetti, in quel tempo, la religione era un baluardo, parte della tradizione costruita dall’ingegno umano, indubitabilmente un punto di riferimento per non impazzire. Oggi cosa abbiamo? Quante strutture culturali abbiamo costruito per far fronte a questo senso di frustrazione, paura, solitudine e sconforto? Si, abbiamo fatto progressi in campo medico, scientifico, tecnologico, ma culturale?

La cultura di massa è inficiata di capitalismo; da merce-denaro-merce si è giunti a denaro-merce-denaro. Ci siamo preoccupati di riempire il nostro tempo nella corsa all’accumulazione di capitale, a riempire i conti in banca, ad andare in overdose di economia, soldi. In assenza di produzione, di lavoro ci sentiamo spaesati, alienati, impauriti.

E ormai è una catena, un cane che si morde la coda, una trappola in cui siamo cascati (più o meno) tutti. E il coronavirus ha messo in luce questa condizione umana (che si è costruito più o meno consapevolmente l’uomo stesso) in maniera lampante. Così siamo chiusi in casa, fermi nelle attività, soli con noi stessi. Possiamo solo mettere il naso fuori la porta, per poi abbassare lo sguardo e vedere la scritta sbiadita sullo zerbino “Benvenuti nella società liquida”.

Melissa Aleida