Una ciotola di riso

Pagine di un viaggio in Myanmar. Il nostro viaggio in Myanmar inizia a Mandalay. Partiamo presto per raggiungere il famoso Uben’s Bridge prima dell’alba. Fa molto freddo, ma siamo soli. Man mano che il cielo si rischiara, la luce riflette sul lago e il più lungo ponte in teak del mondo sembra sospeso nella nebbia mattutina.
Restiamo un paio d’ore e poi proseguiamo verso il monastero di Amarapura, dove molti novizi vivono prima di prendere i voti definitivi. C’è silenzio e pace. Alle 10.15 i monaci si mettono in fila per mangiare, ma se volete visitare questo luogo, vi consigliamo di farlo prima di quest’ora, per evitare l’effetto zoo causato dai numerosi turisti dei viaggi organizzati.
Ripartiamo alla volta di Inwa dove, prima con una sgangherata barchetta e poi con un carretto trainato da cavalli, arriviamo in uno spettacolare monastero in teak risalente ai primi dell’800. All’interno un austero senso di antico, circonda una piccola scuola dove un maestro distratto e alcuni scolari indisciplinati stanno studiando. Dopo aver applicato una la fogliolina d’oro sul Bhudda del Mahanumi Paya e aver gironzolato per le vie della città vecchia fino al fiume, voliamo verso Kengtung, nello Stato Shan.
Arrivati dopo un’ora di volo, ci aspetta Sai Leng, una guida locale che ho contattato online per visitare i villaggi di questa regione, famosa un tempo per essere il fulcro della via dell’Oppio.
Partiamo quindi alla volta del villaggio Ahku, dove ci sediamo insieme allo shamano che ci offre una grappa al riso. Il mattino seguente veniamo invitati ad un matrimonio Ahka, dove molte donne, compresa la sposa, indossano gli abiti tradizionali. In questa parte del mondo sposarsi è semplice: le famiglie approvano, la famiglia dello sposo paga la festa, la voce si sparge, arrivano centinaia di persone da tutti i villaggi per festeggiare, iniziano le danze, tutti sono testimoni, e voilà… i due ragazzi sono sposati! Facile, no?
Dopo aver salutato tutta una generazione di parenti, procediamo verso il villaggio della Ann tribe, dove le donne sfoggiano orgogliose la loro meravigliosa dentatura nera. Il giorno seguente ci dirigiamo a 30 km dal confine cinese, nell’area della Loi Tribe, per visitare le Long House.
Man mano che i nostri occhi si abituano alla semioscurità, davanti a noi si apre uno scenario inatteso. L’interno delle abitazioni è molto ampio e da ogni parte si intravedono scene di vita quotidiana. Una donna sta facendo saltare il riso, un’altra prepara il focolaio, più avanti un uomo soffia sulla brace, mentre un vecchio si accende un sigaro. Altre donne sono appena tornate con una cesta carica di legna, mentre fuori delle adolescenti stendono i panni o tessono lunghi filati colorati. Un piccolo mondo racchiuso sotto un enorme tetto di paglia. Siamo catturati. Ci offrono il the e fumiamo un sigaro di tabacco appena rollato, poi procediamo verso il secondo villaggio.
Un vecchissimo monastero del 1600 ci aspetta. Alcuni novizi giocano a Chinlon intorno al cortile. Da un ponte in legno sospeso su un torrente, come un fiume in piena, arrivano decine di bambini. Sembriamo pifferai magici, il nostro flauto è stato il rumore della macchina. In pochi istanti siamo circondati. Sono tutti sotto i 6-7 anni. Sono sporchi e con il naso che cola, ma sono bellissimi. Ognuno porta sulle spalle un fratellino più piccolo. Alcuni addirittura due. Ci seguono ovunque e ci scortano fino al villaggio.
Molti di loro sono timidi e hanno paura della macchina fotografica, ma la maggior parte si lascia trasportare dalla curiosità tipica dei bambini e dopo una mezz’ora si trasformano in piccoli modelli.
Ripartiamo alla volta di Heho, aereporto d’accesso per Kalaw, graziosa cittadina di montagna, dove passiamo una piacevole giornata di trekking tra le valli di aranceti, per poi proseguire fino al famoso Lago Inle, attraverso una strada che si dondola lenta tra campi di grano e le brulle colline. Prima di dirigerci verso il lago, facciamo una deviazione per ammirare la grotta di Pindaya e la Shwe Oo Ming pagoda che sorge al suo interno. Più di 8.700 Bhudda di tutte le dimensioni sono incastonati tra le roccia. La maggior parte sono dorati, ma ce ne sono anche alcuni neri o di giada. Il panorama dalla cima della pagoda è bellissimo: una scalinata parte dalle valle e serpeggia verso la montagna.
Nel pomeriggio e il giorno seguente affittiamo una barca per visitare il lago Inle, famoso per i suoi pescatori che danzano sull’acqua come veri e propri equilibristi, roteando la cesta del pesce sopra la testa e muovendo lentamente il remo con il piede.
I villaggi a palafitta che circondano il lago sono ben tenuti, con giardini galleggianti e finestre colorate. Ci sono laboratori di artigiani ovunque, dalle tessitrici di Loto, alle tagliatrici di tabacco fino agli orafi dell’argento. Non mancano infine monasteri in teak e pagode centenarie, una meta perfetta per ogni turista.
Ma un viaggio in Mynmar non si può definire tale, senza una visita a Bagan e ai suoi favolosi templi.
Quando saliamo i ripidi scalini della Shwe San Daw Pagoda al buio e vediamo la palla rossa del sole fare capolino dietro al tempio di Sulamani, percepiamo il suo antico splendore. L’alba illumina pian piano tutte le pagode della valle, sono migliaia, dall’ocra al color terra bruciata, dal bianco candido all’oro accecante, e mentre i pipistrelli escono in gruppo dal Dhamnayangyi, una nebbia sottile avvolge le guglie dei templi, immortalane la grandiosità.
Proseguiamo alla scoperta dello Stato Chin, una meta poco turistica. Siamo fuori dal mondo, il cellulare non riceve e diventa solo un oggetto per illuminare il sentiero verso la camera, nelle notti stellate. La corrente elettrica è razionata e disponibile solo dalle 6 alle 10 di sera, mancano tutti i servizi di base e l’acqua per la doccia viene scaldata con il fuoco.
I villaggi, incastonati tra le valli di montagna, sono in bilico tra ancestrali tradizioni e nuovi riti, le case in paglia intrecciata, iniziano ad essere sostituite con quelle in legno, dai colori accesi, e queste ultime, dalle prime case in mattoni. Il lupo soffia forte di notte, scuotendo le fronde dei pini e facendo cadere i petali dei rododendri.
L’antica usanza di tatuare il viso delle donne Chin è destinata a scomparire presto, quando la generazione delle anziane passerà a miglior vita. Le giovani preferiscono truccarsi il viso con la polvere di sandalo, piuttosto che farsi incidere sulle guance i simboli della tribù d’appartenenza.
E come dare loro torto? I tattoo venivano realizzati con lo scalpello ed erano dolorosissimi, tanto che le ragazzine di 40 anni fa – non si fanno più da allora – dovevano restare in casa per almeno una settimana con la faccia gonfia, senza poter mangiare nulla dal dolore, se non un po’ di zuppa di verdure o bambo. Inoltre non è più necessario "rendersi brutte" da quando il re non fa più razzia delle vergini della valle, dopo la rivoluzione del 1948.
Nel primo villaggio, vicino a Mindat, assistiamo, nostro malgrado, al sacrificio di una capra. La religione, in questa parte del Myanmar, è ancora confusa tra credenze animiste, pratiche buddiste e cerimonie cristiane. Una famiglia deve intraprendere un lungo viaggio fino in Malesia e vuole ingraziarsi gli spiriti per non avere problemi lungo il tragitto. Lo shamano è pronto ad aiutarli. Inforca un rudimentale arco e scaglia una freccia nel cuore dell’animale, mentre quest’ultimo, ignaro del suo destino, sta brucando una foglia di palma. Tutti esultano, la capra cade a terra agonizzante. La finiscono sgozzandola, mentre lo shamano estrae, con un tubicino, il suo sangue fresco. Il sangue verrà bevuto, l’animale cucinato. Lo spirito è felice, la famiglia farà un buon viaggio.
Nel pomeriggio stringiamo molte mani e Paolo scatta parecchie foto. Le anziane signore tatuate sono ospitali. Una vecchietta di 88 anni, alta poco più di un metro, suona un flauto traverso in legno con le narici del naso. Una tecnica inusuale, che però produce dei suoni dolci, melodici.
Un giovane amico (35 anni) della nostra guida è morto ieri sera. Veniamo invitati alla cerimonia funebre. Scendiamo dei faticosi scalini e ci ritroviamo nel bel mezzo di una festa. Tutti sono già molto ubriachi, il vino di palma distillato in casa non perdona e sembra che anche il defunto ne bevesse un po’ troppo. Veniamo accolti con larghi sorrisi e strette di mano. Ci sono nonne tatuate ovunque, circondate da un nugolo di nipotini. L’odore acre del bufalo scuoiato per l’occasione, ci si attacca ai vestiti. I pezzi dell’animale sono sparsi ovunque, anche vicino ad un improvvisato chitarrista, cugino del morto. Veniamo fatti entrare in casa. La scena che ci si presenta è raccapricciante.
Il cadavere è vestito con gli abiti tradizionali ed è deposto in bella vista, in una rudimentale bara di cartone dal tenue color blu pastello, intorno a lui, tre dei suoi cinque figli, giocano allegramente, mentre la madre, coperta con un velo, prega e intona litanie. Sulla destra della bara, alcune vecchie, ubriache, dormono sdraiate su giacigli fatti di stracci. Una giovane donna, tira fuori il seno sinistro per nutrire il suo neonato, mentre altre mantengono vivo il fuoco sotto i pentoloni neri, dove un altro bufalo sta bollendo. Ovunque, i pezzi dell’animale, sono ricoperti da decine di mosche. La puzza del morto si mischia a quella della carne, mentre lasciamo un’offerta alla famiglia e scriviamo i nostri nomi su un quaderno sgualcito. Usciamo. L’aria frizzante della montagna è un toccasana.
Il nostro viaggio prosegue alla volta di Mrauk U. La vita nella sperduta regione nord est del Rakhaing state (ex Arakan) scorre lenta seguendo i ritmi dettati dal placido fiume. Arrivati con un volo a Sittwe abbiamo proseguito via fiume per cinque ore fino all’antica capitale Birmana.
È difficile immaginarsi come questa sonnolenta cittadina di campagna abbia potuto essere nel XVI secolo una delle più fiorenti capitali dell’Asia e di come le sue navi, siano state una flotta temuta in tutto il Golfo del Bengala, eppure, osservando gli antichi stupa, anneriti dal tempo o circumnavigando le mura diroccate del palazzo reale, si percepisce un po’ del perduto splendore.
In quest’area del Mynmar arrivano in un anno l’equivalente di tutti i turisti che visitano in un giorno Bagan. Non ci stupisce, quindi, il fatto che la gente sia particolarmente incuriosita dalla nostra presenza e molto incline alla conversazione. Con un paio d’ore di navigazione, su una barca più piccola, a fondo piatto, arriviamo in sperduti villaggi rurali, immersi nella foresta di Bambo, dove vivono altre donne con i tatuaggi dei Chin, anche se queste hanno dei disegni diversi da quelli delle tribù di montagna.
Il fiume Lemro ora è molto basso, tanto che in certi punti, il barcaiolo deve scendere in acqua e spingere per non farci arenare sui banchi di sabbia, ma durante la stagione delle piogge il fiume può alzarsi anche di 3-4 metri, portandosi a valle le fragili capanne di paglia.
L’interno dei templi della valle nord di Mrak U è molto suggestivo: ci sono migliaia di Bhudda incastonati in piccole grotte, in stretti corridoi concentrici, illuminati dal sole che filtra attraverso alcune feritoie laterali. Camminiamo in silenzio, godendoci il misticismo del luogo.
Prima del tramonto, le donne dei villaggi limitrofi, si recano verso una sorgente d’acqua dolce con delle anfore argentate, creando una fila scintillante, in contrasto con l’ocra dei brulli campi che circondano il laghetto. A Mrauk U il tempo si è fermato senza Cristo e i contadini si affrettano a trasportare verso casa i fasci di legna per il fuoco, mentre i raggi del sole scendono dolcemente dietro il Shittaung Paya.
Arrivati a Yangon, ultima tappa del nostro viaggio, ci dirigiamo in centro. Ad attenderci un susseguirsi di fatiscenti palazzi d’epoca coloniale, mischiati a moderni edifici dallo stile indefinito. Su entrambi, una schiera ben allineata di parabole e panni stesi fuori dalle finestre.
Ci perdiamo tra i marciapiedi sconnessi, rapiti dalla vita dei suoi abitanti e dal pout-pourri di razze che abitano la più grande città del Myanmar.
Ad ogni incrocio, con il naso all’insù, ammiriamo le cupole in stile liberty, ricoperte dalle radici dei ficus benjamin e dalla muffa di decenni d’incuria. Molte cornacchie e piccioni, trovano al loro interno una confortevole dimora, incuranti del traffico frenetico che si congestiona più sotto, lungo la Merchant Road.
La pianta della città vecchia è un reticolato di vie parallele con numeri crescenti. Ogni strada sembra rappresentare un mestiere o i suoi relativi prodotti che vengono esposti in bella vista.
C’è la via degli imbianchini e la via dei fabbri, la via dei calzolai dove abili artigiani modellano le tomaie e la via delle stoffe con i suoi bottoni colorati. E ancora, la via delle lampade e la via delle fotocopie, dove i fogli inumiditi dal clima vengono asciugati con il phon. E a pochi passi, la via dell’oro e quella delle pietre preziose, seguite da quella delle reti da pesca, degli specchi, delle targhe fatte a mano, dei cavi, delle funi, dei pezzi di ricambio per tutto, da un paraurti per auto fino ad ogni singolo componente per crearti il tuo accendino. C’è persino la via del kit del "piccolo monaco", con ceste contenenti tutto l’occorrente: la tunica, l’ombrello e la ciotola di riso per le offerte, alla quale ci siamo ispirati per nominare il nostro diario di viaggio. Ogni mattina infatti, i monaci, se la mettono a tracolla e percorrono, scalzi, le vie delle città in cerca di un dono. Non si tratta di accattonaggio, ma di un modo di offrire alla gente la possibilità di migliorare il proprio Karma, con la speranza di una vita migliore.
L’ingegnosità degli abitanti di Yangon supera ogni nostra aspettativa e piccoli baretti per bere thè o gustare un succo di canna sono disseminati ovunque. Padelle incandescenti sui marciapiedi, olio che sfrigola sotto gli alberi dalle radici dorate; ogni angolo è buono per accovacciarsi su minuscole sedioline in plastica e osservare il via vai dei passanti, mangiando il Maji-yweq Dhouq, un’insalata preparata con le tenere foglioline di giovani tamarindi. Intere famiglie si tramandano una gestualità fatta di piccole cose, da come tagliare le cipolle sminuzzandole finemente, a come districare i nodi di una rete. Una manualità orchestrata per creare un concerto di artigiani. Una kermesse di quotidianità che toglie il fiato e ci rende curiosi spettatori di abitudini che non ci appartengono.
In particolare mi affascinano molto gli anarchici del colore. Ogni casa d’epoca, infatti, ha un suo colore specifico e ogni inquilino deve provvedere autonomamente alla manutenzione del pezzo di facciata di sua proprietà. Molte sono dipinte con colori accessi, dal giallo limone al verde acquamarina. Altre hanno mantenuto i colori pastello originali, più tenui, dal pervinca alla carta da zucchero. Ecco, gli anarchici del colore, incuranti della riunione condominiale, ridipingono il proprio pezzo di casa in modo diverso, creando palazzi arcobaleno che vanno dall’arancione al turchese. Una tavolozza ingarbugliata da tubi e fili, ma, a suo modo, affascinante.
La lunga ombra della Shwedagon, la pagoda dorata, simbolo del Myanmar, domina la città con i suoi 98 metri d’altezza. Al tramonto raggiunge il massimo del suo splendore e mentre la guardo mi sembra un faro. Il mio pensiero va alla Lady – come chiamano in Myanmar Aung San Suu Kyi – la signora che, tutti si augurano, porterà questo Paese fuori dagli anni bui della dittatura militare, dandogli una speranza per un futuro migliore.
Yangon, città dai mille artigiani, Myanmar, Paese dalle mille pagode dorate.

Scritto da Sarah Falchi – Fotos Paolo Castellari (visita il sito)

ALCUNI CONSIGLI I LINK UTLI
Mandalay: The Home
Inle Lake: Hupin Inle Khaung Daing Village Resort
Bgana: Gracious Bagan Hotel
Mrauk U: Mrauk Palace Resort
Yangoon: Hotel Grand United – Ahlone Branch
Local guide in Kengtung: Sai Leng – sairoctor.htunleng@gmail.com
Local guide in Mrauk U: Myint Zaw – mraukuguide@gmail.com