Un salario alle casalinghe. Sarebbe ora!
Se l’immagine di Rosie the Riveter durante la Seconda guerra mondiale ci fece prendere coscienza del fatto che una Donna è in grado di svolgere gli stessi lavori di un uomo, in modo analogo portò alla luce un dilemma mai risolto, in Italia come in altri paesi del mondo. Alla fine della guerra, negli USA, quando gli uomini fecero ritorno a casa e ripresero a lavorare, le donne, che li avevano sostituiti nelle fabbriche durante il periodo bellico, vennero licenziate e rilegate di nuovo al ruolo di casalinghe. Fu allora che iniziò a farsi strada l’idea che sarebbe giusto retribuire con un salario il lavoro domestico.
Ed è proprio in Italia, nel 1974, dalla voce di Mariarosa Dalla Costa, sociologa e scrittrice, co-autrice insieme a Selma James del classico “Potere femminile e sovversione sociale”, che nasce il dibattito sul lavoro domestico o casalingo come lavoro riproduttivo indispensabile al funzionamento del capitale. Il tema assunse una rilevanza internazionale attraverso la campagna “Wages For Housework”.
Nel termine “lavoro riproduttivo” la donna viene identificata come produttrice di forza-lavoro, dunque pilastro dello sviluppo economico della nazione. Un pilastro comunque non riconosciuto, subordinato, poiché dipendente dal salario del coniuge, e, in quanto tale potenzialmente vulnerabile a forme di sfruttamento invisibili o meno. È, tra altri fattori, la funzione sociale del salario a creare la frattura tra uomo e donna, la disuguaglianza. La conquista del salario per il lavoro domestico rappresenta il rifiuto dell’idea che il lavoro domestico sia, per la donna, un percorso naturale, come fosse nata per partorire, crescere figli, accudire il marito, la casa, e spesso anche gli anziani. Restituisce dignità alla donna attraverso il riconoscimento del suo lavoro, determinante per il funzionamento di una società in grado di prosperare economicamente e moralmente.
Fino al 2016, dati Istat ci dicono che sono 7milioni 338mila le donne che si dichiarano casalinghe nel nostro Paese. 700 mila di queste versano in condizioni di povertà assoluta. In media una casalinga lavora 50 ore settimanali (in realtà sono il doppio). Non conoscono festivi e non godono di ferie. Se tutti i lavori che svolgono per la cura della casa e all’interno della famiglia venissero retribuiti, le casalinghe dovrebbero percepire uno stipendio di almeno 3.000 euro netti al mese.
In un paese come il nostro con un mercato del lavoro moribondo e una cultura patriarcale che schiaccia la figura femminile costringendola ad una lotta perenne per i suoi innati e sacrosanti diritti, il ragionamento diventa necessariamente politico. Uno Stato che si definisce democratico, giusto, ha la responsabilità di riconoscere il lavoro domestico quale fondamento delle nostre comunità e del progresso economico-sociale dell’intera nazione. Tale riconoscimento impone la retribuzione attraverso un salario alle casalinghe. Abbiamo bisogno ora di una classe politica in grado di andare oltre il dibattito sulla questione, che agisca, che ci porti al passo con i tempi. Abbiamo bisogno di una classe politica capace di abbandonare con decisione l’era paleolitica.
“La Rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano. Quella matita, più forte di qualsiasi arma, più pericolosa di una lupara e più affilata di un coltello.”
di Christina Pacella
*Immagine Rosie the Riveter – Creative Commons