Alla ricerca del tempo perduto

Il tempo. Tempo come istante, come periodo o come il non essere. Già. Potrei scandire la mia vita lavorativa, e non, in ognuna delle tre precedenti declinazioni. Ma ciò che rimarrebbe invariato sarebbe sempre il risultato. Esattamente come nella proprietà commutativa: cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia.

Alla precarietà, e dunque, alla mutevolezza dei nostri tempi fa da sfondo un immanente, radicato e quanto mai pesante trascorso storico. Una zavorra che impedisce all’indeterminatezza odierna di far apprezzare a noi “giovani” il suo lato positivo. I politici lo ricordano spesso: la ciclicità e la dinamicità lavorativa sono un bene, un antidoto alla staticità tipicamente italiana e alla visione del “posto fisso.” Ed eccoci catapultati in un mare di inettitudine e incapacità a fissare gli obiettivi e a raggiungere i traguardi. Dove i fari della solidità sono stati inabissati.

A 25 anni ero una giovane laureata in giurisprudenza perché a 13 anni entrai per la prima volta nel tribunale civile di Roma, in Via Lepanto, (eh sì, sono sempre stata una bambina precoce) e dissi a mia madre che era lì con me: “Mi sento a casa, questa sarà l’aria che vorrò respirare ogni giorno da grande”. E continuavo a pensare per tutto il tempo che mi divideva dal raggiungimento del mio sogno: “Farò qualcosa per gli altri che mi farà ricordare nella storia perché il mondo è delle persone come me”.

Successivamente al conseguimento della laurea, neanche una settimana dopo, iniziai il mio fantastico stage in una delle aziende multinazionali più prestigiose al mondo. Camminavo 10 metri sopra terra, mi sentivo già un grande avvocato in carriera. Ambiente internazionale, stimolante, giovane. Circondata da bravissimi colleghi entro nel vivo. Ma a 25 anni desideravo che a quell’esperienza corrispondesse un’adeguata condotta di vita. Pertanto, andai a vivere da sola. E certo che i 500 euro al mese che percepivo come rimborso spese per le mie 8 ore lavorative mi consentivano a malapena di pagare il carburante necessario per attraversare la città e raggiungere il tanto agognato posto di lavoro.

Ma 6 mesi dopo ci fu un rinnovo ai medesimi termini e alle medesime condizioni contrattuali perché effettivamente dovevo ancora imparare il mestiere. Le lettere, le email, le mie conoscenze tecniche, giuridiche e linguistiche non meritavano ancora i 1.400,00 euro mensili. Tuttavia, la voglia, il desiderio e la brama di una giovane che tanto aveva faticato per arrivare “in tempo” al traguardo mi condussero altrove: a uno stipendio degno di tale nome, a un contratto a tempo determinato e a un lavoro che mi aiutò a comprendere il significato del termine “noia”.

Nessuno in quello stabile faceva alcunché. Cosa era per loro lavorare se non altro che recarsi, tutte le mattine, in un luogo distante da casa, timbrare il cartellino e guardare un pc per 8 ore. Capii, ben presto, che era ciò che rimaneva di un posto pubblico, o come si dice ora, “privatizzato”. Perché è bello usare termini nuovi per rinverdire ciò che era un “tempo”, ma che, nella sostanza non è mai mutato. E, quindi, mi dissero che avevo troppo carisma per ricoprire quel ruolo. Così continuai a cercare la strada giusta per arrivare a diventare quel principe del foro cui aspiravo riuscendo a sopravvivere. Ma capii che l’una era l’antitesi dell’altra. O guadagnavo una cifra modesta o praticavo.

Perché se volevi lavorare accanto a un grande avvocato eri tu a doverlo pagare. Lavorare. Quale sarebbe stato il tuo misero contributo. Tu che non conoscevi nulla di quel mondo. E quindi divenni anche un’abile praticante, esperta in diritto penale, a costo zero. A 28 anni ero una giovane e promettente avvocato che aveva superato l’esame di Stato al primo tentativo a Roma, senza migrare altrove per sostenere un esame facilitato. Mi piacevano le sfide impossibili.

Ai colloqui che seguirono mi sentivo sempre ripetere la stessa cosa: ma quale è la sua specializzazione? Come se la settorialità fosse un requisito indispensabile per arrivare in cima… in cima alla strada dei valorosi. E come si diventa esperti se la prima cosa che chiedevano era che lo fossi già. Chi mi avrebbe dato quella qualifica, nel frattempo, consentendomi di vivere la mia vita da giovane single adulta e non “bambocciona”? Troppe domande. La soluzione era semplice. Cambiare. “A che ti serve la stabilità di un posto fisso a te che sei così in gamba”, mi dicevano. Nel frattempo, però la vita va avanti e incontri l’uomo con cui costruire una solidità, una casa quello che ci hanno insegnato a chiamare “famiglia”. A 29 anni, che utopia diventare madre.

Accettai un lavoro per avere una retribuzione in vista del seme della vita che portavo dentro di me. Mense. Aziendali, scolastiche e ministeriali. Ma mense. Controllare gli ordini, le fatture, gestire il personale e vivere con l’odore di soffritto pensando alle immissioni dell’art. 844 del codice civile. Ma arrivò Vittoria e continuai a pensare che il tempo non era perso, che ancora potevo diventare quello per cui lottavo da 20 anni. E diventare mamma riaccese quei vecchi ancestrali dolori mai superati con cui tutti noi facciamo i conti. Avere una famiglia. Unita e numerosa. Così arrivò Francesco due anni dopo.

E finalmente ero pronta ad affrontare il mondo per loro. Era il mio turno. Posso darvi tutta me stessa. Mettetemi alla prova. Pensavo. Cinque giorni prima del mio presunto rientro dal periodo di assenza per maternità mi convocò il “direttore del personale”. Un signorotto milanese sulla cinquantina con la puzza sotto il naso che mi liquida dicendo che il mio ruolo era stato soppresso, che date le mie potenzialità ero sprecata per quella azienda e che mi sarei potuta dedicare a fare la mamma.

Che belle parole. Il loro suono riesco ancora a percepirlo. Ma una cosa pensavo: “caro Dott. ‘failamamma’ qualcuno ha avuto il coraggio di metterti al mondo, ti ricordi da dove sei venuto? Tua mamma cosa ti ha spiegato del valore di una maternità per una donna e per il genere umano”. La mia persona, la mia anima, il mio essere mamma, donna, lavoratrice e ancora promettente e giovane avvocato erano stati annientati da uno zero. Eppure c’era un tempo in cui le donne neanche andavano a lavorare. Erano mamme. Ma no, ai nostri tempi devi renderti indipendente, devi essere emancipata, devi essere in carriera però, non dimenticando mai, che sei anche una donna il cui orologio biologico non aspetta e dai 30 anni in poi il ticchettio echeggia nella tua testa.
E’ il tempo del “sempre”, del “qui ed ora”, del “carpe diem”, del “mai dire mai” e del “sarà quel che sarà”. Del “We are hiring”, del “Head of retail”, del “Senior manager”, della “governance” e del “learning”. Insomma, il tempo perduto, quello dei luoghi comuni che mai moriranno, della mentalità infelice di un Paese vano, perso nel rincorrere gli altri, che ha fatto svanire la sua identità politica, storica, etica ma che in fondo ha nell’anima il bigottismo e la pesantezza dei nostri avi che almeno avevano il coraggio di non indossare maschere e di gioire della mediocre italianità.