Esame di specializzazione in medicina 2016 “Mettete le telecamere della polizia nelle aule”

In questi giorni si sta svolgendo in varie sedi italiane l’esame di ammissione alle scuole di specializzazione in medicina, dalle quali usciranno i medici che cureranno gli italiani nei prossimi decenni. Io sono una di loro, anzi non lo sono, nel senso che mesi fa ho superato il medesimo esame spagnolo e lavoro e studio in Spagna, ma in questi giorni sono tornata in Italia per provare l’esame italiano, con la tentazione incerta e pericolosa di tornare, per ragioni affettive. L’esame spagnolo è nazionale da circa vent’anni, qui in Italia da soli 3 anni (prima addirittura il primario di ogni città decideva arbitrariamente chi selezionare); in Spagna il candidato deve sostenere un esame scritto cartaceo di 5 ore, dovendo risolvere casi clinici complessi, e dell’esame sono disponibili 7 versioni differenti, in modo che nessuno possa copiare dal vicino (e sono testimone del fatto che un ragazzo che timidamente allungava il collo è stato spostato in un angolo). In Italia l’esame è spalmato su due giornate con prove di un’ora e mezza ciascuna, e si svolge al computer. All’inizio ho pensato che l’Italia fosse per questo all’avanguardia, fino a quando il mio computer non ha segnalato un “errore interno al sistema” proprio al momento dell’invio dei dati al ministero. Non esistono versioni diverse del compito e le schermate dei computer vicini sono facilmente visibili. In Spagna il candidato non deve scegliere in anticipo le sedi per le quali concorre, cosa che stabilirà dopo la graduatoria, in modo che virtualmente compete per tutti i posti, e nessuna borsa di studio viene sprecata; in Italia si possono scegliere solo tre scuole di specializzazione, prima dell’esame, e non si possono modificare in seguito, indipendentemente dai posti rimasti liberi. Prima dell’avvio della prova un’addetta alla vigilanza, peraltro molto simpatica e gentile, ha letto ad alta voce le norme di sicurezza e, alla voce “smartwatch”, ci ha chiesto allibita di cosa si trattasse, quindi dubito che avrebbe riconosciuto la presenza di un orologio che naviga in internet al polso di uno di noi. Al termine della prova sono stati appesi i risultati sulla porta: a Milano il punteggio massimo nella mia aula e in quella di fronte non superava i 55, ma ho avuto modo di vedere la foto del medesimo foglio appeso fuori dalla porta a L’ Aquila, dove quasi metà classe aveva punteggi sopra il 65. Qualcuno addirittura ha letto su Facebook la frase “Grazie Wikipedia”, scritta da qualche candidato senza vergogna e con il sonno notturno pesante e indisturbato. I quesiti dell’esame italiano erano banalissimi (addirittura in uno chiedevano a noi medici se l’obesità fosse un fattore di rischio cardiovascolare!) o estremamente irrilevanti dal punto di vista clinico e facilmente reperibili in internet, come il nome di specifiche proteine cellulari. La mia impressione è che un sistema di questo tipo punti a far sì che rimanga preponderante il peso del voto di laurea, che è l’altra parte del punteggio. Dato che ci sono università italiane in cui quasi tutti si laureano con 110 e altre in cui a fatica si raggiunge 90, sarebbe stato logico ponderare il voto di laurea in base alla media di quell’università, ma chiaramente la proposta è caduta nel vuoto. Se volete curare gli italiani, il mio consiglio è di iscrivervi in un’Università con la lode facile e poi fare l’esame di specializzazione con lo smartwatch al polso. Ho pagato 100 euro per sostenere questo esame italiano (il costo di quello spagnolo era di circa 10 euro) e sento di aver solo finanziato questo sistema mafioso. Posso solo augurare a chi ha permesso tutto ciò che, quando prima o poi ne avrà bisogno, perché il momento arriva per tutti, sarà curato da quei brillanti candidati che oggi hanno superato l’esame a modo loro, e in realtà non c’è nemmeno bisogno di augurarlo, perché inevitabilmente sarà proprio così. Questa è la fuga dei cervelli e la crisi della sanità, spiegata dal mio personale punto di vista: dato che ho avuto il privilegio (coatto) di poter fare un confronto tra i due Paesi, mi sembrava giusto trasmettere a qualcuno la mia inutile testimonianza, pur consumando il poco tempo che mi rimane qui in Italia, in attesa dell’aereo. Se non fossi nata qui e non mi fossi abituata affettivamente a questi luoghi potrei solo essere sollevata dal fatto di andarmene, potrei semplicemente essere una turista che adora l’Italia e dice che vorrebbe vivere qui, senza crederci davvero e conservando gelosamente in tasca il suo biglietto aereo di ritorno. Ognuno vuole fare un viaggio in Italia una volta nella vita, e io l’ho fatto. Ora sto pensando a come disamorarmi dell’Italia, considerandolo un amore tossico, impossibile o dannoso, di quelli che solo possono far male e che per meccanismi perversi rimangono attaccati come sanguisughe al cuore.
Non mi piace affatto quando i colleghi spagnoli mi ricordano che la sanità italiana è ormai privata, perché le attese per un esame sono di mesi e il costo del ticket arriva a 80 euro, mentre in Spagna il ticket non esiste, ma d’altronde io ricordo bene quando, due anni fa, gli spagnoli scesero in piazza a frotte contro la privatizzazione della sanità, bloccandola. Così come curano con affetto il parco del Retiro a Madrid (mentre in alcune nostre città non si possono lasciare fiori nelle aiuole perché il senso del bene pubblico non esiste e i fiori e le panchine verrebbero sradicati e portati in giardini privati), così come in generale curano tutte le loro città, riuscendo a renderle tolleranti, creative, all’avanguardia ma allo stesso tempo sicure, ordinate e civili (con intransigenza), immagino non abbiano permesso a nessuno di calpestare il loro diritto ad una sanità efficiente governata da medici competenti. Alla fine solo di questo si tratta, di autostima collettiva, del diritto che un popolo crede di meritare (o meno) ad un servizio pubblico meritocratico. La crisi economica si può vivere in modi diversi, con dignità o con disfattismo e cinismo. Immagino che il pensiero dei furbetti che hanno copiato in questi giorni (e nei due esami degli anni passati, senza che per questo fossero adottate nuove misure di sicurezza) sia stato il solito triste ritornello italiano della sopravvivenza a qualsiasi costo, del “così fan tutti”, con quel penoso compiacimento di gente che si crede tosta perchè galleggia nelle sabbie mobili del malaffare. Il cancro nasce quando una cellula pensa solo alla propria sopravvivenza, a scapito dell’organismo intero. A volte credo che sia troppo tardi: quando la maggioranza pensa solo a salvarsi a qualsiasi costo difficilmente qualcuno potrà rischiare di fare il primo passo, mettere un fiore nell’aiuola pubblica, non sapendo se gli altri crederanno a quel timido messaggio o approfitteranno di quel segnale di apertura per sradicarlo. Tutti mi dicono che sarebbe stata una follia tornare qui, in questo Paese in cui l’ambiente universitario è spesso gratuitamente arrogante e lasciato al narcisismo indiscusso di una personalità singola, che detta legge, ed io questo lo so, eppure parto col cuore pesante. Non so ancora i risultati ufficiali dell’esame, ma forse avrei voluto essere io a rifiutare l’Italia e non viceversa, o addirittura mi sarebbe piaciuto riappacificarmi con questo Paese, dare all’Italia una possibilità di corteggiarmi, riconquistarmi. Quando finalmente in Italia si decise di introdurre l’esame su base nazionale un po’ sperai, un po’ immaginai che questa donna bella e dannata volesse diventare una compagna di vita e non solo di scappatelle estive. Addirittura meditai di aspettare l’esame italiano, senza partecipare a quello spagnolo, per poter fare il mio difficile lavoro al 100%, nella mia lingua, nel mio intorno culturale. Qui in Italia questo esame lo conoscono solo gli addetti ai lavori, ma le sue ripercussioni ricadono su tutto il Paese, per decenni. Mettere delle telecamere o del personale di Polizia in quelle aule sarebbe stata una spesa utile per il futuro di tutti noi, anzi di tutti voi.