Il peso della dignità

La vita (che cosa meravigliosa!) ci insegna che tutto è possibile e che un rovesciamento delle sorti di ciascuno, come di quelle della storia, può essere sempre dietro l’angolo. Ma la vita è fatta di contraddizioni e se da un lato è vero che tutto è sempre possibile, dal lato opposto si può assistere al dispiegarsi di eventi in cui è il determinismo a proferire l’ultima parola.

Si prenda, ad esempio, il concetto di dignità: esistono condizioni per garantirla o dipende dal fato esserne provvisti sin dalla nascita? Confesso che, animata da un radicale scetticismo, durante gli anni della giovinezza, sorridevo amaramente tutte le volte nelle quali sentivo espressioni del tipo “poveri ma dignitosi”, pensando a quanto facessero comodo a coloro che, magari ricchi e potenti ma senza dignità, se la spassavano considerando certe virtù inutili orpelli di cui farsi vanto. A dirla tutta, pensavo che i “poveri ma dignitosi” nella loro compostezza, nel loro mantenersi onesti, rinunciando a delinquere e molestare chi appunto avesse qualcosa da farsi sottrarre, finissero col collaborare al mantenimento del potere da parte dei pochi. E infondo dentro di me, quella voce che mi faceva sorridere amaramente esiste ancora, suffragata da una valanga di casi concreti di cui, in un modo o in un altro ciascuno di noi ha tutti i giorni notizia.

Gli anni mi hanno però fatto dono di interessanti, anche se forse non paradigmatiche eccezioni ad un certo determinismo degli eventi e, benché non si tratti di un fatto realmente verificatosi, ma della sua rappresentazione cinematografica, “Il pernacchio” di Eduardo De Filippo ne “L’oro di Napoli” ha molto da insegnarci a proposito di eccezioni, rappresentando la risposta del popolo all’arroganza del potente di turno, a proposito del quale taluni si sono spinti a scrivere che ” con un pernacchio si può fare la rivoluzione”. Napoli è peraltro la città nella quale forse di più che in ogni altra parte del mondo, l’eccezione si è fatta regola.

Ma, tornando al nostro pernacchio, l’ispirazione realistica dell’episodio non fa pensare ad una narrazione creata ad arte per “scaricare” nella fruizione del film l’insoddisfazione dello spettatore: lo humour della pellicola è autentico perché volto a rappresentare proprio certe reazioni tipiche del popolo napoletano, tramite la consapevole trasposizione di De Filippo.

I napoletani che ne “L’oro di Napoli” commissionano il pernacchio conservano la dignità. A perderla è invece il nobile arrogante. Nel film si assiste dunque ad un ribaltamento di un certo determinismo: il potente è nudo ed avrebbe ora bisogno per coprirsi con quella dignità che tanto gli doveva parere superflua.

Il popolo ha dato una lezione al potente, insegnandogli che non bisogna mai considerarsi infallibili.

Tuttavia questo riscatto molto è rimasto e rimane nell’immaginario collettivo in quanto eccezione ad una regola appunto diversa, che vuole il popolo nudo e vestito di sola dignità, abito notoriamente insufficiente a proteggerlo e salvarlo dalle avversità della vita. Ma la dignità, con tutti i limiti a cui ho fatto cenno è oggi, nella vita reale, un obiettivo difficile da raggiungere, se non impossibile. La società di cui facciamo parte è una società ben più complessa di quella rappresentata ne “L’oro di Napoli”, che era quella del dopoguerra ed anche la “costruzione” di una dignità che possa farci sentire parti e non ai margini di qualcosa, può essere un risultato nient’affatto scontato. Va detto in primo luogo che, in un sistema capitalistico è impensabile la costruzione di un’identità senza danaro, possibile, perché la vita ci insegna che tutto è possibile, ma appunto evento rarissimo. I soldi ci consentono di partecipare al Grande Gioco della competizione, che coinvolge ogni aspetto della vita, in ciascuno dei quali ci viene richiesto di essere vincenti, cosicché siamo costretti ad un’eterna corsa, come criceti in una ruota di cui siamo prigionieri.

Appare chiaro già da questo come, non essere ai margini del gioco, sia un’impresa a dir poco ardua: se infatti la regola è far girare la ruota, fermarsi per qualsivoglia ragione porta all’espulsione immediata dalla competizione.

L’elemento tuttavia, senza il quale il Grande Gioco non può neppure avere inizio è il danaro, ergo non si avrà l’impressione di aver incominciato qualcosa senza prima aver pagato. In assenza di danaro la dignità di essere umano è impossibile che si sviluppi. Per un assurdo paradosso dunque, per partecipare ad un “gioco” di cui un aspetto è il lavoro, sei prima obbligato a pagare, ma con che soldi se un lavoro ancora non ce lo hai? Il danaro ti consentirà, qualora dunque tu già lo abbia, di creare un’identità, di dire chi sei, di trovare ed usare un tuo spazio, di essere rispettato in quanto essere umano. La mancanza di soldi ti priva oggi di ciò che prima era un bene inalienabile e cioè il tuo essere uomo, con tutte le sue prerogative, spesso solo formali, ma almeno esistenti in quanto forma. Alle tante regole, garanzie, diritti, prima vigenti, si è sostituta una sola grande legge che recita così :”Se non può essere comprato non esiste”, norma di fronte alla quale la già menzionata “Poveri ma dignitosi” si svuota di qualunque senso.

La dignità poteva forse un tempo essere un logoro abitino, ma pur sempre un abitino.

Oggi è un reperto archeologico da esporre in museo su manichini sotto cui scrivere: “Costume utilizzato fino alla metà del secolo scorso dai meno abbienti per coprirsi le pudenda, entrato in disuso in tempi più recenti, con l’estinzione dei poveri, sostituiti da masse di mendicanti senza più tutele né diritti, usi a farsi la guerra tra loro”.

Rosamaria Fumarola.