L’incolore vita di Elisabetta II

I am a camera with its shutter open, quite passive, recording, not thinking.
“Sono una macchina fotografica, con l’obiettivo aperto, passiva, registro, non penso”. Così si apriva un piccolo ma fondamentale libro di Christopher Isherwood, “Addio a Berlino”, del 1939, testo che poi divenne una piece per il teatro e alla fine il musical Cabaret.
Quell’attacco, in testa al libro, mi è tornato in mente in questi giorni dominati dalla presenza prima in vita e poi in morte dal corpo della regina Elisabetta. Perché l’unica cosa che mi pare si possa dire di questa figura politica è che sia stata passiva, non pensante, un organismo che ha osservato, come una macchina fotografica, il Novecento e un pezzo del nuovo millennio senza offrire una reale contribuzione.
Elisabetta è stata più di ogni altra cosa un testimone muto, il suo corpo è un luogo dove annotare ciò che avviene intorno, poco più di uno specchio, con quella gelida indifferenza della lastra riflettente e insieme con la disponibilità a accogliere qualunque cosa le passasse davanti, dal nazismo di famiglia alla Brexit.

Politicamente ha stretto mani a chiunque, senza operare alcuna scelta, ha controfirmato qualunque atto del parlamento, era lì a siglare la mostruosa Clause 28 della Thatcher contro gli omosessuali ed era lì a siglare l’equiparazione dei matrimoni gay a quelli etero, era lì quando la Gran Bretagna entrava in Europa ed era lì a mettere il suo sigillo sulla Brexit.

Si potrebbe dire che è parte degli accordi fra monarchia e parlamento la non ingerenza nelle scelte del paese, l’ultimo che lo fece venne decapitato, e però le maglie della legge sono strette o larghe a seconda della volontà di far passar altro e Elisabetta ha sposato l’idea che il potere è immobile.

Di lei si ricorderà semplicemente che c’era. E’ un collectable, come la Barbie, una testimone muta e passiva delle mode, che indossa ora un abito e ora un altro, della quale al massimo si può dire che borsetta e che cappello, quale punto di giallo il cappotto e le scarpe.
Durante il suo regno, Buckingham Palace è diventato più che mai una gigantesca macchina fotografica. Un luogo vuoto, in cui non accade nulla di significativo, ma che registra, fotografa i cambiamenti intorno restituendoceli immortali solo per effetto della sua meccanica di copiatura. Perfino i discorsi del suo lunghissimo regno sono fatui, mai nulla degno di nota, una stanca ripetizione di ovvietà che hanno il sapore del pane scipito. Il sospetto, in verità supportato da larghe prove indiziarie, è che Elisabetta sia stata soprattutto l’ultima erede di una idea di monarchia vecchia, già alla sua incoronazione, e che nella scelta di immobilità, di impersonalità, abbia scientemente perseguito un unico obiettivo, preservare gli interessi di famiglia.

Avrebbe potuto rinnegare il colonialismo britannico, non l’ha mai fatto, in nessun discorso, attenendosi ad una etichetta irritante che non a caso ha fatto infuriare molti membri del Commonwealth, i quali uno dietro l’altro hanno e stanno abbandonato lei e la sua eredità di orrori, di violenze, schiavismo, torture, spoliazioni, privilegi scandalosi e ricchezze inumane costruite con furti e sangue lontano da casa.
Avrebbe potuto raccontarsi “solo” come regina, ma in verità non ha mai rinnegato la sua eredità di “imperatrice”.
Avrebbe potuto pulire l’immagine economica della casa regnante. Uno scandalo dietro l’altro, un malcostume, per usare un eufemismo, che ha coinvolto lei stessa (conti segreti off-shore in paradisi fiscali intestati a sua maestà, mentre le tasse continuano ad aumentare in tutta la Gran Bretagna e ci si avvia alla recessione), ma che ha coinvolto anche il suo erede, l’attuale Carlo III, che per ben due volte è stato beccato con borse piene di contanti, milioni, arrivate dalla famiglia Bin Laden, il cui solo nome evoca morte in mezzo pianeta e che a lui deve stare molto simpatico.

Avrebbe potuto prendere le distanze dal figlio Andrea, accusato di pedofilia, e invece lo ha difeso con una serie di comunicati reali fino all’ultimo, quando la sopravvivenza di Andrea minacciava la sopravvivenza della famiglia, e allora ecco la mossa, unica, togliergli i titoli. Una mossa che forse in patria sarà sembrata forte, ma che all’estero suona tardiva e francamente inutile, perché sarebbe stato meglio congelargli i conti correnti e ridurlo al lavoro come una persona qualunque, piuttosto che togliergli dei titoli che già di loro valgono nulla.
Incapace di ripulire la famiglia dagli scandali sulla gestione della moralità, sulla gestione del denaro, non ha mosso un dito neanche in termini di successione, lasciando che l’intera eredità passasse esentasse al figlio, mentre il governo annuncia una crisi finanziaria da misure speciali.
Nella sua passività da macchina fotografica, la regina ha reinforzato anche una serie di bugie che ripetute fino al lavaggio del cervello ormai passano per verità: non è vero, ad esempio, che la presenza dei reali garantisce un indotto che supera le spese. Sarebbe come dire che la Francia ha meno visitatori perché non ci sono più i Borbone sul trono. I turisti visiteranno Londra e i palazzi reali quando e se mai saranno restituiti alla collettività, quanto se non di più di adesso, così come Versailles è meta di pellegrinaggio già dall’indomani dei primi colpi di ghigliottina.
Una continua opera di insabbiamento e di coercizione perfino dei mezzi di informazione è sempre esistita e, nel suo immobilismo, è stata sostenuta dalla regina: prova ne sono gli scandalosi continui messaggi diffusi all’indomani della sua morte a tutti, messaggi che più o meno minacciosamente “suggerivano” di evitare qualunque attacco on-line alla defunta regina o alla casa reale, silenziando qualunque opinione repubblicana, in un clima orwelliano da censura di stato.
Cosa preoccupa davvero l’establishment nazionale al punto da diffondere messaggi del genere? I pochi che hanno rotto il riserbo imposto sono stati arrestati, neanche si fosse in una dittatura militare.

E se in vita il corpo della regina era il muto testimone del tempo, una specie di timbro da portare con sé per certificare che qualunque avvenimento stesse davvero avvenendo (quel mazzuolo che deve essere in parlamento perché la seduta abbia inizio), in morte la frenesia di accaparrarsi l’ultimo scampolo del testimone del tempo non fa che confermare il punto.
Le code chilometriche per vedere un corpo sottratto alla terra da oltre una settimana, con una deriva necrofila imbarazzante, continua a rispondere alla stessa esigenza, esserci con lei, la regina, la testimone è esserci di più.
Lo specchio che immortala il momento, la macchina fotografica di Isherwood che taglia l’istante. Muta in vita come in morte, coperta in vita di simboli, ori, vessilli, medaglie, come l’ultima di quelle statue greche sulle quali si assommavano i bottini di guerra, così coperta in morte da orpelli tutti terreni, che paiono più catene e zavorre per chi dovrebbe almeno adesso tornare alla terra.
Una vita oscena, in senso soprattutto etimologico, cioè fuori scena: così come fuori scena deve essere la macchina fotografica per poter registrare ogni scena possibile. L’oscenità, l’esser fuori scena, nel balletto delle dimore reali, delle vetture vedo-non-vedo, nelle comparsate, pare la quintessenza di questa monarca che si avvia ad entrare nella storia come i suoi predecessori, pare la sua cifra più intima, quel sottrarsi a qualunque ruolo attivo di rinnovamento per confermare l’eternità di chi è immobile.
Non a caso il commento ripetuto identico, stolido, all’uscita dalla camera ardente è: “era lì in ogni momento della mia vita”. E in effetti di lei non si può dire altro che questo.
Elisabetta era lì.

Articolo inviato e firmato da Alberto Milazzo York

Immagine Creative Commons da Flickr.com